La musica che cura

Chiunque di noi ricorda i momenti neri dell’adolescenza, quando si chiudeva il mondo fuori dalla propria camera alzando al massimo il volume delle cuffie. Si aveva la sensazione che la musica potesse curare le ferite dell’anima, calmare quell’ansia che tutti abbiamo conosciuto attraversando certi anni e che a volte si ripresenta nel pieno della nostra vita adulta.

Quell’impressione che la musica serva a rimettere assieme i pezzi e restituire momenti di benessere seppur brevi – a meno che non mettiate su un pezzo dei Pink Floyd – non è esattamente campata in aria.

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Studi scientifici di un certo spessore hanno ipotizzato infatti che la musica, in grado di stimolare contemporaneamente più aree del nostro cervello, possa ristabilire i percorsi neurali (path, vengono chiamati in gergo tecnico) tra una zona e l’altra dell’encefalo, attraverso collegamenti sopiti nella memoria e riattivati da un certo brano musicale.
La terapia musicale è stata utilizzata anche a curare una serie di disturbi neurologici tra cui il morbo di Alzheimer e di Parkinson.

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Andrew Schulman è un “musicista medico”, ovvero un chitarrista che suona regolarmente nei reparti di terapia intensiva degli ospedali. Si va da Schubert e Bach ai Beatles fino a un’inaspettata “Besame Mucho” che, a quanto racconta lo stesso Schulman, funziona con un numero impressionante di pazienti, anche non direttamente legati alla cultura latina.

Il cervello è fatto (anche) di musica

Daniel J. Levintin è un neuroscienziato, un musicista e un autore. Sua è un’opera interessantissima: “This is your brain in music”, pubblicata nel 2006.

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In questo studio si espone come la musica stimoli contemporaneamente molte parti del cervello, più di qualsiasi altra attività e come i ricordi legati alla musica si formino già nella fase prenatale, attraverso i suoni che il bambino ascolta attraverso il ventre della madre.
Ci sono prove inoltre che alcuni legami tra cellule cerebrali vengano stimolati soltanto dalla musica, “qualsiasi tipo di musica” precisa l’autore, che a quanto pare tiene a precisare che non esiste una musica migliore di un’altra.


La musica inoltre riesce a generare processi mnemonici così profondamente radicati che l’ascolto di una canzone a cui è legato un ricordo riattiva la catena di sensazioni che riporta quel ricordo alla mente con estrema chiarezza. Tali processi di creazione di memorie sono estremamente attivi durante l’adolescenza: è per questo motivo che tendiamo ad amare più di qualsiasi altra la musica che ascoltavamo da giovani.
Questo naturalmente funziona soltanto se lo stimolo (la musica in questo caso) non viene reiterato continuamente.
In parole povere, ascoltare continuamente un brano impoverisce la nostra capacità di legarlo ad un ricordo specifico e ne “diluisce” il potenziale mnemonico fino a renderlo quasi insignificante.
Allenarsi all’ascolto continuo di nuova musica, aggiunge Levintin, ci permette di allargare i nostri orizzonti conoscitivi, sviluppare nuovi schemi di decodifica che ci permetteranno di “riconoscere” altri brani musicali simili a quelli già ascoltati.

La musica del cuore

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Le applicazioni della musicoterapia non si fermano alla cura delle disfunzioni neurali.
C’è chi della capacità curativa della musica ha fatto l’oggetto di studio di una vita. L’esimio ed eccetrico professor Milford Graves, musicista jazz, maestro di un’arte marziale che lui stesso ha inventato e che definisce come un “jazz fisico”, ha ricevuto una borsa di studio dalla John Simon Gugghenheim Memorial Foundation nel 2000 per approfondire la sua ricerca nel trattamento dei disturbi cardiaci attraverso la musica.
Graves partiva dall’assunto che il battito del cuore fosse la prima forma di percussione che l’umanità abbia mai conosciuto e negli anni ha registrato e armonizzato il proprio battito del cuore e quello di altri musicisti, scoprendo al di sotto di quello più forte, altri ritmi meno regolari e indipendenti generati da ogni muscolo cardiaco.
A partire dalle sue registrazioni Graves ha composto brani che potrebbero individuare e addirittura curare patologie cardiache secondo i principi della medicina olistica, ad esempio regolarizzando un battito alterato semplicemente facendo ascoltare ad un soggetto il battito di un cuore sano.

L’ hi – fi e il potenziale curativo del suono musicale

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Tutte queste interessantissime dissertazioni in merito al potere della musica di curare alcune patologie e riattivare percorsi neurali alterati non può prescindere assolutamente dall’ascolto.
E’ attraverso l’orecchio che la musica arriva al cervello, ed è  attraverso gli stimoli sonori che la musica arriva all’orecchio.
A questa semplice concatenazione fisica a volte non si da la giusta rilevanza: l’importanza di un corretto ascolto di musica, che restituisca tutta la ricchezza del suono, è un importantissimo strumento di stimolazione del cervello in grado grazie a esso di ampliare e ripristinare le sue connessioni neuronali.

Se la musica è la cura, l’hi – fi è il modo migliore di somministrarla.

 

Fonti:
http://www.audiostream.com/content/music-heals#bFppIcoIpQyJxImU.97

http://www.audiostream.com/content/daniel-j-levitin-your-brain-music#dx0SutKHVb8J7dFf.97

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